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Venerdì, 11 Marzo 2016 12:45

Chi non teme il tuono, non teme neanche il fulmine In evidenza

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(dall’VII capitolo)

Quel pomeriggio aveva iniziato a piovere. Poche gocce senza importanza, sembrava la classica pioggerella primaverile che rinfresca l’aria e dura il tempo di un caffè. Invece aumentò, e andò avanti per giorni.

Le campagne erano tutte allagate, il fango aveva invaso le strade. La natura a suo modo si sfogava e anch’io facevo lo stesso: da quando ero tornata dai miei, non riuscivo a smettere di piangere. Mi alzavo e piangevo, cucinavo e piangevo, allattavo mio figlio, e piangevo. I miei occhi erano gonfi come quelle nubi, gonfi di tutta la rabbia ingoiata in quei lunghissimi anni di matrimonio. Rabbia che ora aveva trovato un varco e sgorgava, irrefrenabile. Mia nonna diceva sempre: "chi non teme il tuono, non teme neanche il fulmine". Significa che chi è pulito, chi è in pace con se stesso e con gli altri, non deve aver paura di nulla, perché nulla gli potrà accadere. Ma la mia esperienza era stata diversa. Non avevo colpa se il mio matrimonio era fallito: la mia coscienza era a posto, non avevo fatto niente di male. Eppure, in qualche modo, mi sentivo responsabile. Come se la malattia del mio ex marito l’avessi provocata io. E ancora tremavo, al pensiero di quello che mi aveva fatto passare. Ripensavo alla crudeltà di mia cognata, alle assillanti richieste di mia suocera. A tutti i miei sforzi per essere amata e accettata, che ora mi apparivano inutili, persino ridicoli. Neanche a casa mi sentivo amata, ma almeno quella era la mia famiglia. Erano i miei genitori, i miei fratelli, il mio mondo, sapevo di appartenervi, anche se lo detestavo con tutte le forze. Un mondo che era rimasto perfettamente uguale a se stesso. La vita, lì a Cimma, non era cambiata per niente. Il paesaggio, le persone, la mentalità: tutto era identico a come l’avevo lasciato. L’unica che si sentiva cambiata ero io. Ero uscita di casa poco più che bambina e vi rientravo con un figlio da crescere e con un’esperienza matrimoniale che mi aveva devastata. Quel ritorno in famiglia fu pesantissimo, perché mi fece risprofondare nel mio antico ruolo di figlia, sottomessa al volere dei genitori. Fu una vera e propria regressione, c’erano giorni in cui mi sembrava di non essere mai andata via. Ma volevo sentirmi al sicuro. Volevo dimenticare quegli anni terribili passati a Napoli e per ottenere questo avrei fatto qualunque cosa. Anche rinunciare alla mia libertà. E’ stato allora che, nel disperato tentativo di rimuovere il mio recente passato, feci spazio a dei ricordi lontanissimi, che avevo completamente rimosso. Erano immagini e sensazioni della mia infanzia che adesso, a contatto con i luoghi in cui ero vissuta, “tornavano” anche loro, nitidi e prepotenti, a reclamare un’attenzione che gli avevo sempre negato. Stavo iniziando a recuperare la memoria, a vedere il mio passato sotto una diversa luce. Iniziavo a capire qualcosa di me… ma la fitta nebbia che avvolge il periodo che va dai 6 agli 8 anni non si è mai diradata del tutto. Di quel momento della mia vita ho ricordi a sprazzi. Per questo mi sono rivolta a un terapeuta, esperto in regressione ipnotica. Per tre volte mi ha fatto tornare lì, in quella zona d’ombra, ma alla fine della seduta mi ha detto: "Signora, io con lei ho fallito. La sua mente è fortissima, continua ad opporre resistenza anche sotto ipnosi. Dovrebbe fare degli esercizi per allentarla, solo così riuscirebbe a ricordare. Altrimenti questa parte della sua esistenza resterà per sempre un buco nero". Un buco nero: proprio così mi disse. Io non ho mai associato il nero a qualcosa di brutto. Mi vesto spesso di nero, è un colore che amo. E da piccola, quando pensavo al mio Angelo Custode, me lo immaginavo africano, con un viso dolce e un sorriso bianchissimo. Strano, perché io sono cresciuta in un ambiente molto razzista, dove ai bambini viene detto che c’è “ l’uomo nero”, e che è cattivo, quindi non so perché io invece l’ho associato a una figura buona e protettiva. Anche mio fratello Gabriele, appena nato, era tutto nero. Quel colorito non era un buon segno: il parto infatti era stato molto difficile e il bambino aveva rischiato di morire. Ma all’epoca non lo capivo: avevo solo 4 anni ed ero affascinata da quel passeretto, piccolo e magro, lungo 40 centimetri, che si dimenava bello arzillo sul letto. Sentivo un grande amore per lui e tanto orgoglio, perché in casa mia il figlio maschio era molto atteso. Avvertivo l’atmosfera di grande eccitazione dei miei genitori e vi partecipavo, senza capire cosa realmente significasse. Ben presto mi resi conto che mia madre aveva occhi solo per il nuovo arrivato. Lo accudiva gelosamente, passava le giornate a cambiarlo e a profumarlo, e guai a chi glielo toccava. Sembrava una leonessa col proprio cucciolo, se lo rimirava con la stessa espressione fiera. Fu così che la mia gioia si trasformò in rabbia. Quando vedevo mio fratello, diventavo nera anch’io. Avevo sempre dovuto elemosinare l’affetto di mia madre, e adesso, da un giorno all’altro, mi trovavo soppiantata dall’ultimo arrivato, che senza alcuno sforzo usurpava i miei spazi e si prendeva tutto. Ero piccola, ma questa sensazione me la ricordo bene. Come ricordo il giorno in cui mamma lasciò mio fratello sul letto e uscì dalla stanza per prendere degli asciugamani. Rimasi sola con lui, con quel bimbetto che apriva e chiudeva le manine, come se volesse dirmi ciao. Erano gesti involontari, che fanno tutti i neonati, ma arrivavano al mio cuore di bambina come una crudele irrisione. Mi sentivo truffata: tutti a dirmi che la nascita di un fratello sarebbe stata un evento meraviglioso e ora eccola di fronte a me, l’amara verità: quel bambino sarebbe diventata l’ennesima barriera tra me e mia madre, l’ennesima scusa per farmi sentire di troppo. Fu un attimo. Presi il barattolo del borotalco che stava lì accanto e ne gettai tutto il contenuto in faccia al bimbo. Non fu un incidente, non stavo giocando. Volevo proprio ammazzarlo! Tant’è che rimasi immobile ad osservare il consumarsi della mia bravata, senza fiatare, senza fare nulla. Mia madre tornò dopo pochi istanti e vide, al posto di suo figlio, un piccolo fantasma, candido come la calce, con la bocca e le narici piene di polvere bianca. Cacciò un urlo. Subito lo afferrò e corse fuori, in terrazza, dove c’era un secchio pieno d’acqua piovana, e ce lo infilò tenendolo per i piedi. Fu il suo istinto di madre a suggerirglielo, non si trattò di una cosa razionale. Così Gabriele si salvò, per la seconda volta in pochi giorni. E io invece rischiai di morire per le botte che mi diedero (è stata forse l’unica volta che mia madre mi ha punito a ragion veduta). Ancora oggi, mio fratello va in giro a dire che ho cercato di ucciderlo perché ero invidiosa. Ma non era invidia. Reagivo a un’ingiustizia. Io avevo bisogno di mia madre e del suo amore, esattamente come lui. Non ci stavo a farmi mettere all’angolo. Da piccola ero tremenda, una peste. Ne combinavo di tutti i colori. Era la mia valvola di sfogo, la mia vendetta per come venivo trattata in famiglia. E naturalmente, era anche un modo per attirare l’attenzione di mia madre. Perché, se lei mi puniva e mi dava le botte, allora voleva dire che esistevo. Che non ero trasparente! Anche a mia nonna facevo un sacco di dispetti e lei, veramente, non se lo meritava. Ma io ero così assetata d’amore che non mi bastava dormire con lei nel lettone, non mi bastava il tempo che passavamo insieme. Povera donna, faceva il possibile per starmi vicino. Ma giustamente non poteva scavalcare mia madre, né sostituirsi a lei, tanto più che tra le due non correva buon sangue. Pertanto si teneva a rispettosa distanza, cercava di non imporsi. Era presente, ma con discrezione. E questo mi faceva soffrire moltissimo. Non capivo come potesse restare lontana da me e limitarsi a qualche visita di cortesia, lei che sembrava l’unica ad aver capito quanto stessi male, quanto avessi bisogno di vederla. Passavo giornate intere a osservare le sue finestre, a spiare i suoi movimenti. Era un modo per stare con lei anche se non c’era, per partecipare comunque alla sua vita. La seguivo mentre rifaceva il letto, mentre capava le verdure per il minestrone. Cercavo di intuire il momento in cui avrebbe attraversato il cortile per bussare alla nostra porta. E quando, come ogni giovedì, la vedevo prendere l’abito buono dall’armadio e capivo che sarebbe andata a Napoli a trovare la sorella, cadevo nel panico: perché io sarei rimasta tutto il giorno senza di lei. Senza l’unica alleata che avevo, l’unica persona da cui mi sentivo veramente amata. Così sgusciavo di casa, senza che nessuno mi vedesse, e andavo ad aprire il recinto dei maiali. In pochi minuti il cortile si riempiva di queste simpatiche bestioline rosa, con le scrofe e i piccolini che assaporavano l’ebbrezza della libertà e commentavano l’evento con allegri grugniti. Nonna si affacciava dalla finestra e a momenti le prendeva un colpo. Impiegava più di mezz’ora per riportare i maiali nel recinto, poi doveva rientrare a casa, lavarsi, cambiarsi di nuovo, perché nel frattempo si era sporcata… ma io ero felicissima perché, con la scusa di darle una mano, potevo stare con lei, anche se per poco tempo, senza che nessuno avesse da ridire. Nonna mi portava spesso in campagna. Ma non mi obbligava a lavorare. Non mi obbligava a fare niente. Ricordo che tagliava l’erba fresca per le mucche e la raccoglieva in un vecchio lenzuolo, che poi avrebbe portato in testa, come si usava una volta. Ma io prendevo la rincorsa e mi tuffavo dentro a quel mare d’erba, spargendola tutta in giro. Oppure fingevo di essere un aereo e bruuuum, planavo sul lenzuolo, lanciandomi da un albero. Povera donna, aveva lavorato tutto il giorno e ora le toccava ricominciare da capo. Ma non mi ha mai rimproverato. Mai una volta che abbia alzato la voce con me. Mamma, al suo posto, mi avrebbe vomitato addosso ogni genere di parolacce, mi avrebbe augurato un tumore alla bocca o alla testa, o magari di finire sfracellata sotto una macchina. Giuro, mi diceva così, ed era mia madre. Mentre mia nonna mi diceva: "Bella d’a nonna, nun fa’ accussì, o si no ‘a nonna adda fatica’ ddoie vote! oppure: Pozzi sculàr a’ nonna, nun’ mo’o fà perché guarda che me combinu, bell’ra nonna." E io alla fine mi mettevo a raccogliere l’erba con lei. Senza che me lo chiedesse. Altre volte l’aiutavo a raccogliere le zucchine o i pomodori. E lei mi spiegava come dovevo fare. Amavo mia nonna, dunque mi veniva spontaneo amare il suo mondo, le sue abitudini, i suoi ritmi. Con mia madre non sarebbe mai successo: lei, qualunque lavoro, te lo faceva odiare. E’ stata mia nonna ad insegnarmi a mungere. Un giorno mi portò nella stalla e mi mostrò come dovevo impugnare la mammella della mucca per far uscire il latte. Si raccomandò di non provarci subito da sola, perché avrei avuto bisogno di fare un po’ di pratica. Mi disse che le mucche sono animali sensibili, che meritano rispetto, e la mungitura è il banco di prova della sintonia creatasi tra il contadino e l’animale. Per questo bisognava aspettare il momento giusto, perché anche “l’amicizia” ha i suoi tempi, deve maturare. Ovviamente non l’ascoltai e feci di testa mia. Di nascosto tornai nella stalla quando tutti se ne erano andati. Ricordo che c’era questa mucca buonissima, che mi guardava con i suoi occhioni immensi, rassegnata a subire le mie torture. Non fece un fiato, poverina, ma la munsi così male che le feci ritirare il latte. Mia nonna se ne accorse, perché il giorno dopo andò lì con il secchio e non usciva niente… Anche in quell’occasione, si limitò a scrollare le spalle e a rivolgermi un sorriso. Nessuna tragedia, nessuna punizione esemplare. E io non lo feci più. Avevo capito di aver sbagliato e questo mi bastò di lezione. Non ci fu bisogno di alzare le mani, né di rinchiudermi per ore in una cantina gelida. Mi manca, mia nonna. Mi manca il suo amore, la sua pazienza, la sua dolcezza infinita. Ancora oggi, quando incontro una persona anziana, non posso fare a meno di intenerirmi. Se avessi le possibilità economiche, aiuterei tutti i vecchi che sono soli, che non sanno con chi parlare, che non hanno nessuno che si occupi di loro. Nonna è morta dopo una lunga agonia. Aveva l’alzheimer. Sono andata a trovarla, poche settimane prima che morisse – all’epoca vivevo già a Roma - e mi si è stretto il cuore dalla pena. Non era più lei. Non parlava, non riconosceva nessuno. Non ha riconosciuto neanche me. E quando ho sciolto il foulard che le cingeva la testa – mi sembrava avesse caldo, aveva la fronte tutta sudata – mi sono accorta che le avevano tagliato i capelli. Se fosse stata in sé, si sarebbe certamente opposta. Aveva dei capelli così belli, mia nonna. Lunghi sino ai glutei, lisci, lucenti, sembravano di seta. Tutte le mattine li legava in una treccia e tutte le sere, prima di andare a letto, li scioglieva e li districava con il pettine, poi ci passava sopra un batuffolo d’alcool. Aveva smesso di tagliarli quando le era morto il marito. Nonno Angelo l’aveva amata proprio per i suoi capelli lunghi e, quando era venuto a mancare, lei aveva sentenziato: "mio marito mi ha lasciata così, e così resterò". Quel piccolo impegno, preso dinanzi al feretro dell’amato, era un modo per continuare a pensarlo, per sentirsi legata a lui anche dopo la morte. Io lo trovavo così romantico. Per me era l’emblema dell’amore assoluto, l’amore che avrei voluto vivere da grande. Nonna continuava a curarsi, ad essere bella, per suo marito. Per un uomo che non c’era più, ma che lei continuava a sognare tutte le notti e che sentiva ancora vivo e presente accanto a sé. Era una donna di 70 anni e passa, ma aveva una pelle distesa, luminosa, senza una ruga. Non usava creme, solo acqua gelata per lavarsi il viso. D’inverno staccava addirittura i pezzi di ghiaccio che si formavano sulla grondaia per scioglierli in un catino e usarli per le abluzioni. Mi diceva sempre: "lavati anche tu con l’acqua fredda e resterai bella". Ma io proprio non riuscivo. Solo al pensiero di infilare il dito mignolo in quell’acqua gelida, mi sentivo male. Però adoravo la sua acqua di rose! Nonna la preparava tutti gli anni a maggio, la usava anche come profumo. Era il suo unico rimedio di bellezza, se così si può chiamare. Mia madre invece non si è mai curata, né è stata in grado di trasmettere alle figlie l’amore per il proprio corpo. Per anni in camera sua non c’è stato neanche lo specchio. Eppure è ancora oggi una bella donna, piccola di statura ma proporzionata, con occhi di un verde scurissimo. Avrebbe potuto valorizzarsi con un filo di trucco o con un abito alla moda. Si sarebbe sentita meglio con se stessa e forse anch’io l’avrei guardata in un altro modo, magari avrei anche cercato di imitarla. Invece si agghindava solo per le occasioni pubbliche, matrimoni, battesimi… e anche in quel caso non lo faceva per sé, ma solo per rispettare le convenzioni. Ecco perché ho imparato tardissimo a truccarmi, a vestirmi, a mettere in risalto la mia femminilità. Mi sono dovuta arrangiare dopo il matrimonio, perché mio marito ci teneva che vestissi bene. E poi lavorando in pasticceria, a contatto con il pubblico, non potevo certo presentarmi in pantofole. Forse ho iniziato a studiare da estetista proprio per compensare questo vuoto nella mia educazione. Mamma me la ricordo vestita sempre allo stesso modo: con abiti da pochi soldi, portati svogliatamente, sempre di colori spenti. E gli immancabili zoccoletti che detestavo, perché quando si arrabbiava con me – praticamente tutti i giorni – se li sfilava e me li tirava addosso. Ecco, ora che ci penso: gli zoccoli erano la sua unica forma di vanità. Li indossava per sembrare più alta, perché aveva il complesso dell’altezza. Mia madre mi ha lanciato addosso di tutto. Credo che non mi abbia mai picchiato a mani nude. Se non usava gli zoccoli, usava il battipanni. O il tubo per innaffiare l’orto. O la scopa. La vanga. Il mestolo. Una volta ha cercato persino di colpirmi con una falce (dalle mie parti la chiamano “la serrecchia”). La lama è volata sopra la mia testa e si è conficcata sul tronco di un albero. E’ stato proprio l’Angelo Custode a proteggermi: se non mi fossi buttata in terra, sarei morta. Ma la cosa che più faceva male erano i tralci dell’uva. Mamma li raccoglieva in un una fascina e li usava tipo frusta, prendendo di mira le gambe nude. Per questo ho tutti i capillari spezzati sulle cosce. Io non ero certo una bambina tranquilla, lo riconosco: ogni giorno ne combinavo una. Ma c’era un sadismo in quelle punizioni, un accanimento che non era normale, ma che ormai avevo accettato, faceva parte della mia quotidianità. Non è facile tirare avanti quando si ricevono le botte, al posto delle carezze. Ti si forma dentro una specie di nodo, un grumo di rabbia, che resta lì per anni, intatto. Quando è nato mio figlio, ho dovuto fare i conti con questa rabbia. All’inizio la sfogavo su di lui, esattamente come aveva fatto mia madre con me. Poi, anche grazie alla psicoanalisi, sono riuscita a spezzare questa dolorosa catena. Il fatto stesso di aver avuto Lorenzo mi ha permesso di comprendere qualcosa del rapporto genitori-figli che prima non riuscivo a vedere. Mamma era infelice. A suo modo, era anche lei una vittima. E quando mi picchiava, cercava in realtà di distruggere quella parte di se stessa che vedeva in me. Per questo non aveva specchi nella sua stanza, perché ero io, il suo specchio. Lo specchio di quell’infanzia negata, di quel destino di sofferenza che i suoi genitori - i miei nonni - avevano crudelmente confezionato per lei. Per questo non aveva cura di sé. Perché in fondo, odiava se stessa e il proprio corpo. E odiava me, perché le somigliavo. Perché ero la primogenita di un uomo che non ha mai amato veramente. Sono cose che per anni ho potuto solo intuire. Mamma non si è mai aperta con me, non mi ha mai raccontato della sua infanzia, di quando era bambina. Ogni volta che le facevo delle domande, lei cambiava discorso, o mi riferiva episodi senza importanza che avevo già ascoltato un milione di volte. Era come se avesse innalzato un muro altissimo tra lei e il suo passato. Finché una sera di due anni fa – me lo ricordo benissimo: era l’otto dicembre, il giorno dell’Immacolata – mia madre iniziò a parlare. E quel comportamento che non avevo mai capito, quell’aggressività scaricata per anni contro di me, finalmente prese un senso. Fu doloroso e scioccante, ma almeno, i tasselli della mia vita tornavano al loro posto. La diga delle incomprensioni saltò e quel fiume d’amore tra me e mia madre poté finalmente riprendere il suo corso.

Letto 1461 volte Ultima modifica il Lunedì, 14 Marzo 2016 17:56
Luca Pellegrini

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