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Chi non teme il tuono, non teme neanche il fulmine

(dall’VII capitolo)

Quel pomeriggio aveva iniziato a piovere. Poche gocce senza importanza, sembrava la classica pioggerella primaverile che rinfresca l’aria e dura il tempo di un caffè. Invece aumentò e andò avanti per giorni. Le campagne erano tutte allagate, il fango aveva invaso le strade. La natura a suo modo si sfogava e anch’io facevo lo stesso: da quando ero tornata dai miei, non riuscivo a smettere di piangere. Mi alzavo e piangevo, cucinavo e piangevo, allattavo mio figlio, e piangevo. I miei occhi erano gonfi come quelle nubi, gonfi di tutta la rabbia ingoiata in quei lunghissimi anni di matrimonio. Rabbia che ora aveva trovato un varco e sgorgava, irrefrenabile, senza che io facessi niente per oppormi. Mia nonna diceva sempre: "chi non teme il tuono, non teme neanche il fulmine". Significa che chi è pulito, chi è in pace con se stesso e con gli altri, non deve aver paura di nulla, perché nulla gli potrà accadere. Ma la mia esperienza era stata diversa. Non avevo colpa se il mio matrimonio era fallito: la mia coscienza era a posto, non avevo fatto niente di male. Eppure, in qualche modo, mi sentivo responsabile. Ripensavo a tutti i miei sforzi per essere amata e accettata, che ora mi apparivano inutili, persino ridicoli. Neanche a casa mi sentivo amata, ma almeno quella era la mia famiglia. Erano i miei genitori, i miei fratelli, il mio mondo, sapevo di appartenervi, anche se lo detestavo con tutte le forze. Un mondo che era rimasto perfettamente uguale a se stesso. La vita, lì a Cimma, non era cambiata per niente. Il paesaggio, le persone, la mentalità: tutto era identico a come l’avevo lasciato. L’unica che si sentiva cambiata ero io. Ero uscita di casa poco più che bambina e vi rientravo con un figlio da crescere e con un’esperienza matrimoniale che mi aveva devastata. Quel ritorno in famiglia fu pesantissimo, perché mi fece risprofondare nel mio antico ruolo di figlia, sottomessa al volere dei genitori. Fu una vera e propria regressione, c’erano giorni in cui mi sembrava di non essere mai andata via. Ma volevo sentirmi al sicuro. Volevo dimenticare quegli anni terribili passati a Napoli e per ottenere questo avrei fatto qualunque cosa. Anche rinunciare alla mia libertà. E’ stato allora che, nel disperato tentativo di rimuovere il mio recente passato, feci spazio a dei ricordi lontanissimi, che avevo rimosso. Immagini e sensazioni della mia infanzia che adesso, a contatto con i luoghi in cui ero vissuta, “tornavano” anche loro, nitidi e prepotenti, a reclamare un’attenzione che gli avevo sempre negato. Mi ricordai di mio fratello Gabriele, che appena nato, era tutto nero. Quel colorito non era un buon segno: il parto era stato molto difficile e il bambino aveva rischiato di morire. Ma all’epoca non lo capivo: avevo solo 4 anni ed ero affascinata da quel passeretto, piccolo e magro, lungo 40 centimetri, che si dimenava bello arzillo sul letto. Sentivo un grande amore per lui e tanto orgoglio, perché in casa mia il figlio maschio era molto atteso. Avvertivo l’atmosfera di grande eccitazione dei miei genitori e vi partecipavo, senza capire cosa realmente significasse. Ben presto mi resi conto che mia madre aveva occhi solo per il nuovo arrivato. Lo accudiva gelosamente, passava le giornate a cambiarlo e a profumarlo, e guai a chi glielo toccava. Sembrava una leonessa col proprio cucciolo, se lo rimirava con la stessa espressione fiera. Fu così che la mia gioia si trasformò in rabbia. Quando vedevo mio fratello, diventavo nera anch’io. Avevo sempre dovuto elemosinare l’affetto di mia madre, e adesso, da un giorno all’altro, mi trovavo soppiantata dall’ultimo arrivato, che senza alcuno sforzo usurpava i miei spazi e si prendeva tutto. Ero piccola, ma questa sensazione me la ricordo bene. Come ricordo il giorno in cui mamma lasciò mio fratello sul letto e uscì dalla stanza per prendere degli asciugamani. Rimasi sola con lui, con quel bimbetto che apriva e chiudeva le manine, come se volesse dirmi ciao. Erano gesti involontari, che fanno tutti i neonati, ma arrivavano al mio cuore di bambina come una crudele irrisione. Mi sentivo truffata: tutti a dirmi che la nascita di un fratello sarebbe stata un evento meraviglioso e ora eccola di fronte a me, l’amara verità: quel bambino sarebbe diventata l’ennesima barriera tra me e mia madre, l’ennesima scusa per farmi sentire di troppo. Fu un attimo. Presi il barattolo del borotalco che stava lì accanto e ne gettai tutto il contenuto in faccia al bimbo. Non fu un incidente, non stavo giocando. Volevo proprio ammazzarlo! Tant’è che rimasi immobile ad osservare il consumarsi della mia bravata, senza fiatare, senza fare nulla. Mia madre tornò dopo pochi istanti e vide, al posto di suo figlio, un piccolo fantasma, candido come la calce, con la bocca e le narici piene di polvere bianca. Cacciò un urlo. Subito lo afferrò e corse fuori, in terrazza, dove c’era un secchio pieno d’acqua piovana, e ce lo infilò tenendolo per i piedi. Fu il suo istinto di madre a suggerirglielo, non si trattò di una cosa razionale. Così Gabriele si salvò. Ancora oggi, mio fratello va in giro a dire che ho cercato di ucciderlo perché ero invidiosa. Ma non era invidia. Reagivo a un’ingiustizia. Io avevo bisogno di mia madre e del suo amore, esattamente come lui. Non ci stavo a farmi mettere all’angolo.

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